Ci sono storie che appaiono all'improvviso, per riconsegnarsi subito dopo alla latenza da cui sono emerse. Sono storie di vite sommerse, di naufragi, e di tutti quegli squarci che si aprono sul volto di un'epoca. Eventi come il sollevamento popolare contro il muro di Berlino o le rivolte nelle periferie di tutto il mondo mantengono, da qualsiasi parte li si guardi, un carattere sfuggente, inafferrabile. Per quanto possano apparire inesistenti e marginali, per quanto la loro istanza possa sembrare residuale o risolversi in una sconfitta, sono proprio eventi di questo tipo a costituire la condizione fondamentale del nostro stare in comune. In loro parla quanto una società cancella abitualmente dal proprio orizzonte, sottraendo così alle vite lo spazio a loro disposizione: parlano la disfatta e il contrattempo, le rivolte minori e le resistenze anonime, e parlano come una risorsa, forse l'unica che sia rimasta. Una memoria dei senzanome s'incarica di riscoprire questo spazio che ci è stato sottratto e i modi della sua invenzione. La sua è una lingua intessuta dell'urgenza del tempo. Per oscura che sia la sua forza di contestazione, di rifiuto o di dissidenza, essa testimonia di un'emergenza in atto. Che siano popoli o singoli a incaricarsene, è la loro esperienza di libertà a segnare il tempo. Ciò che in ogni singola vita resta senzanome, costella il presente e preannuncia un avvenire incerto e insieme prossimo.