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Ci vogliono le unghie e i denti per ritagliarsi il proprio posto nel mondo, quando si parte svantaggiati, in fondo alla fila. Un padre operaio in nero finito in sedia a rotelle, senza sostegno, senza civiltà, venti metri di casa, quattro ragazzi, la mamma guerriera che urla e combatte per una casa popolare, un’adolescenza segnata dalla povertà, dalla disuguaglianza.
Giulia Caminito scrive una storia vera, non solo perché nata dai racconti di tre donne forti, ma vera soprattutto perché tragicamente comune: L’acqua del lago non è mai dolce è un romanzo feroce, intriso dalla rabbia di chi non ce la fa, è rispedito indietro, tenuto sotto il livello delle acque limacciose della vita.
“Penso che siamo materiali di scarto, carte inutili in un gioco complicato, biglie scheggiate che non rotolano più.”
Gaia cresce in una famiglia dove niente è facile, e pertanto niente è superfluo. La madre Antonia è una donna resa dura dalle difficoltà, da quel marito che doveva badare a lei e ai suoi figli, e adesso è una statua immobile, dalla necessità di assicurare protezione a tutti, dall’andare avanti con decenza, a qualunque costo. E allora si taglia tutto, si mangiano avanzi, si fanno le pulizie per campare, si raccolgono i vestiti gettati dagli altri. Una vita precaria, una casa raccapezzata con quello che si trova, la miseria compagna di vita, fatta di scarti.
Quando Antonia riesce a trasferire la famiglia a Anguillara Sabazia sul lago di Bracciano, Gaia ha compagni di classe con i cellulari, i motorini, le scarpe belle. Per lei, con i capelli tagliati dalla madre, i vestiti vecchi del fratello, il diario fatto di due quaderni incollati tra loro, c’è un conflitto tra desiderio di essere accolta e vergogna della propria situazione. E mentre le altre ragazze parlano di trasmissioni televisive, si scambiano cuoricini con i messaggi, si truccano e vivono la loro spensieratezza, Gaia cresce di furore, di violenza rabbiosa e di negazione, che è il dolore più subdolo perché omettere per farsi accettare è una vergogna bruciante, e lei deve omettere tutto, la sua famiglia, la sua casa, la sua vita. Soprattutto i suoi sogni.
“Questa nuova scuola da subito mi rigetta, come salsa scaduta, surgelato sciolto, e io per questo resto e mi ancoro, col mio zaino sfondato e il quaderno al posto del diario, faccio barricata e competo, se vedo campi di battaglia inizio a marciare.”
In una società consumistica che definisce le persone in base all’avere, Gaia vive la diversità, l’esclusione, il bullismo: è tollerata ma tenuta da parte, difettosa. E reagisce con violenza.
La giornata al fronte di sua mamma si ripercuote su di lei, soffocandola. Perché Antonia è ostinata e intransigente, per la figlia vuole riscatto, studio, studio e ancora studio: Gaia deve farcela, avere l’istruzione che a lei è stata negata. Il superfluo di Antonia è il lusso di un vocabolario, per tanto tempo l’unica cosa nuova che possiede Gaia: parole come gioielli, un tesoro su cui fondare una prospettiva di redenzione.
A poco serviranno le esperienze di amicizia, gli amoretti dell’età: sono illusioni che durano poco, fanno credere per un momento che l’acqua è dolce, fanno abbassare i pugni. Ma Gaia resta quella senza televisione, senza telefono, senza il Natale, una poveraccia con la madre che pulisce i bagni, con il terrore che la casa venga tolta. E i pugni abbassati fanno si che il colpo arrivi forte e dritto in faccia.
Alla fine sono tutti potenziali nemici verso i quali la vergogna diventa odio: Gaia per tutti non è altro che la figlia di Antonia la Rossa, la ragazza che ama la mattanza, il sangue sparso e le ferite.
“Va bene che affondino gli altri, che vengano attribuite colpe inventive e immaginarie, l'importante è che io resti e galleggi, che io affiori in superficie.”
Un libro amaro sull’irreversibilità del destino, una scrittura nervosa, ossessiva nei suoi elenchi, come in un affanno rabbioso che ha la capacità di portare in superficie il sommerso, e poi tornare a fissare l’acqua scura di un lago che resta lì, immobile e torbido, come moribondo.
C’è un futuro già scritto per quelli come Gaia, anche con i voti migliori di tutti, anche con l’università: la società li inghiotte. Giulia Caminito scrive la durezza e il malessere di una storia amara di provincia, raccontando donne forti, vere, e sconfitte: sopra a tutte, immensa nella sua coriacea onestà, la madre Antonia, personaggio indimenticabile, che non smette mai di provarci e per salvare la figlia la condanna alla prigionia dell’anima.
“Ho sempre freddo e sonno e fame d'apprezzamento, necessità che nessuno si dimentichi di me, voglia di presentarmi e ripetere: Eccomi, eccomi, eccomi qui.”
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