Fino a non poco tempo fa, la "giungla" di Calais era il più imponente campo profughi d'Europa, con migliaia di migranti accampati in attesa di raggiungere, in qualche modo, il Regno Unito. È in questo inferno sulle coste del Vecchio Continente che si trovano a vivere i giovanissimi protagonisti di questo romanzo, ciascuno arrivato lì dopo infinite peregrinazioni. L'etiope Hawa, l'albanese Elira, gli afghani Milad, Jawad, Ali e Ibrahim - piccola tribù di adolescenti che a Calais hanno stretto un silenzioso patto di sostegno reciproco - passano le loro giornate tra le baracche e le strade di fango dell'accampamento, cercando di sopravvivere fino al giorno in cui l'Inghilterra, quel miraggio lontano appena trentatré chilometri, si materializzerà sotto i loro piedi. Poi però arrivano gli sgomberi, e la polizia imbarca gli abitanti della giungla su decine di pullman diretti ai centri di ricollocamento. Hawa, Milad e gli altri devono decidere se partire o nascondersi, se rinunciare a quella Terra Promessa talmente vicina da poter essere avvistata tra le nebbie della Manica, oppure continuare a inseguire il sogno a dispetto di tutto e di tutti. Anche a costo di ritrovarsi d'un tratto soli nella landa devastata del post-evacuazione, dove la lotta per rimanere vivi assume i contorni di una vera e propria scommessa. Con l'occhio della cineasta qual è, Delphine Coulin sceglie di mostrarci tutto questo senza prendere mai direttamente la parola. La sua scrittura è fatta di immagini nitide che frugano ovunque ed esibiscono quasi freddamente la convivenza quotidiana con il degrado, lo sbrigativo pragmatismo degli sgomberi, la violenza e gli egoismi tra gli accampati, la continua necessità di fuggire e nascondersi, la rapacità senza scrupoli degli sciacalli che commerciano e traghettano le vite dei disperati. Il risultato è un romanzo duro e struggente, assai lontano dal pathos di maniera di molta narrativa della migrazione, e capace anche per questo di imprimersi più in profondità nella memoria e nel cuore dei lettori.