“Ho viaggiato tanto. Ma ho sempre pensato che un giorno mi sarei fermato e sarei rimasto a casa a fare ciò che non avevo fatto prima. Immaginavo i pranzi domenicali. Figli e nipoti. Io e Marcella ci saremmo fatti compagnia con la pazienza con cui ci eravamo attesi e sopportati. Anzi meglio. Con meno inquietudine”.
Il tempo che passa ha le sue logiche e la sua fredda indifferenza: Marcella se n’è andata troppo presto, prima di quei pranzi domenicali sereni con figli e nipoti, prima che si placasse l’inquietudine di una vita normale.
A sessantasette anni, il marito si trova solo, nella grande casa torinese. Una figlia a Biella, un figlio a Helsinki, un’altra in giro chissà dove, un pensiero che fa male.
La solitudine del vedovo è scandita da piccole abitudini, dalle passeggiate, dalla musica classica, videochiamate per sentirsi padre. Ma la domenica ha silenzi più lunghi e vuoti più difficili da riempire.
La visita della figlia Sonia, con le due nipotine da accogliere, è l’occasione di preparare un pranzo, come una volta, per essere ancora famiglia: il ricettario della moglie da aprire e esplorare è un modo per dare voce a un dialogo silenzioso di nostalgie e qualche rimpianto. I suoi piatti per sentirla vicino.
È stato un ingegnere molto impegnato, il protagonista, forse troppo: a costruire ponti in giro per il mondo, sempre lontano, sempre indaffarato. Alla moglie restava il compito più arduo, quello dell’attesa. Una famiglia per bene, come tante, con gli errori e gli inciampi che il tempo ha perdonato, i figli no: per loro la lontananza del padre è stata disinteresse, e, soprattutto per Giulia, con il suo incompreso amore per il teatro, si è pian piano nutrita di risentimento.
Le cose non vanno come dovrebbero, e quando i piatti sono pronti e la tavola apparecchiata, arriva una telefonata. Una bambina si è fatta male, non vengono più.
È così che il protagonista si trova in strada a camminare per lenire la delusione e la preoccupazione per la nipotina: incontrerà sul suo cammino due solitudini come la sua. Elena è giovane, senza punti riferimento e con un figlio adolescente, aggrappato al suo skateboard. A casa è tutto cucinato: un invito a pranzo strano e improvvisato, con molto pudore, abbatte le diffidenze, e segna la svolta di una giornata nella quale trovare quel senso di accudimento dimenticato, o forse rimasto sospeso.
Le confidenze tra sconosciuti nella lentezza di una domenica inaspettata portano a fare i conti con il tempo, azzardare nuovi progetti, colmare incomprensioni, e per il protagonista, costruire l’unico ponte che non aveva mai saputo realizzare: quello con i propri cari, fatto di emozioni e chiarimenti.
Una domenica di Fabio Geda concentra in un tempo e uno spazio una vita intera, nella quale Giulia, che narra, si scopre riflessa nella rilettura intima che fa di suo padre, svelando incomprensioni del passato, ma anche debolezze, e dando voce a tutte quelle parole taciute negli anni, fino alla più faticosa che si chiama perdono.
Il dialogo con il tempo porta a fare pace con tante cose, a risarcire quello che hanno lasciato dentro di sé episodi e pensieri: così gli occhi di una figlia non restituiscono solo un ritratto del padre, ma danno vita a una nuova complicità nella lontananza, colmano vuoti e riescono a fare quel passo così difficile e così necessario, che è l’accettazione della reciproca umanità e dei nuovi ruoli della vita.
“Non sono mai stata brava a gestire la fragilità dei miei genitori: nei loro confronti non ho mai smesso di sentirmi figlia e di voler essere io quella accudita. Mi veniva spontaneo pensare che essendo più vecchi di me dovessero essere migliori di me, punto: una di quelle cose scritte nel destino.”.
Con una scrittura tersa nella sua semplicità, con un tono garbato e delicato, Fabio Geda conduce nelle pieghe più nascoste dei sentimenti, nella normalità di un tempo piccolo che si dilata sul passato e scatena in chi legge una tempesta di emozioni.
Recensione di Francesca Cingoli