«Ha una bravura e una grazia speciale nel troncare i suoi racconti, che veramente non finiscono mai di raccontare»: questo giudizio di Antonio Baldini ci aiuta a illuminare il percorso novellistico di Maria Messina. Una scrittrice che esordisce facendo propria in tutta la sua profondità la lezione di Verga (e apparendo in questo "scolara" ben più scaltrita di quanto potesse immaginare Borgese), per poi aprire la trama del suo narrare a un'incompiutezza pienamente novecentesca. Dopo aver seguito un modello fedele al tracciato del "maestro", ella approda a una modalità di racconto in cui alla maggiore fragilità dell'intreccio si accompagna una più acuta analisi della psicologia dei personaggi femminili. Tuttavia, anche nel momento in cui, per ambientazioni e storie prescelte, la sua narrativa sembra allontanarsi dalla stella polare verghiana, il richiamo dei nuclei primari e delle immagini fondanti di quel mondo è pronto a riaffiorare. Di questo dialogo fatto di consensi e dissensi, all'insegna di una visione dell'esistenza come transito, dove il tempo segna parole e corpi di vinti "vecchi" e "nuovi", danno prova i testi qui raccolti, comprendenti la novellistica "maggiore" della Messina, da «Pettini-fini e altre novelle» (1909) fino all'ultima silloge «Personcine» (1921), con un'appendice di racconti mai apparsi in volume.