L'ultimo libro, postumo, di Adorno è senz'altro l'opera più concettualmente aspra del filosofo francofortese. L'asprezza deriva dal compito che l'autore si è visto assegnare dal proprio oggetto: pensare l'opera d'arte dall'interno spingendola al concetto pur sapendo che essa è qualcosa di altro dal concetto. Pensarla senza cedere alle facili sirene dell'empatia e del vissuto; non in un'astratta essenza, bensì nella complessa fenomenicità delle sue manifestazioni storiche. Pensare l'opera d'arte, dunque, nella sua appartenenza al mondo delle merci, ma fino in fondo, ossia come una mercé assoluta che nega se stessa, non facile asilo di una interiorità e di una soggettività in via di sparizione, bensì "cosa" che si rifiuta alla reificazione. Pensare il negativo che si mostra come il vero e proprio interno dell'opera d'arte contemporanea, senza consegnarlo ad un'ontologia edificante, ma cogliendovi piuttosto l'attestazione oggettiva che il circolo dell'effettualità non è perfetto e chiuso in se stesso.