In tempi di razionalità debilitata, di emozioni da educare, di visioni del mondo irrimediabilmente lontane dalle lusinghe del progresso da realizzare ad ogni costo, non è del tutto peregrino gettare uno sguardo veloce su chi delle peripezie della ragione è stato cantore forse inarrivabile. Peripezie sostanzialmente declinate come regresso costretto, come disavventura storica non revocabile, come frattura non sanabile. Da questa costatazione quasi banale è nata la curiosità di rileggere qualche pagina di Schopenhauer, autore spesso descritto come il cantore principe dell'irrazionalismo, ma a lungo corteggiato da una letteratura filosofica idealista e marxista che ha visto in lui il portatore di un paradigma fortemente interpretante. Schopenhauer è stato infatti per molti neo-moderni il maestro di ermeneutica, un maestro che li ha aiutati a comprendere il dissolversi di un mondo che si credeva e voleva solido, razionale, redento. Ma in lui non c'è redenzione, e rara redenzione si profila anche nel decostruzionismo di molti illuminati cantori delle nuove sorti progressive. Proprio quelle stesse sorti nude e dimesse che sembrano profilarsi per la pedagogia, prigioniera di volontarismi, esortazioni e ripetizioni tecnicistiche. La naturalità innatista schopenhaueriana potrebbe forse rappresentare, in materia, un farmaco da risveglio salutare.