“Le radici sono la parte nascosta, profonda, bella.
L’ombra è il buio che esce dalle cose, dalle persone.
E si proietta su quello che le circonda, le oscura.
L’ombra è brutta, inquieta.”
Uscito dal centro di riabilitazione psichiatrica, la Casa delle farfalle, Antonio si trova “fuori”, nel mondo.
Sembra una liberazione, la fine dell’alienazione di uno spazio chiuso che sancisce la sua ritrovata
“normalità”, qualunque cosa significhi.
Antonio è un impaziente psichiatrico, che non vede l’ora di riprendere un percorso di vita: un lavoro, un
amore, la famiglia, gli amici del bar.
La sua inquietudine è sempre presente perché fa parte di lui, che è inquieto nelle radici. Per questo è un
platano che sceglie di adottare, come compagno dei suoi primi momenti nel mondo. Un platano che ha la
solidità, la protezione e l’ombra di cui lui ha bisogno. Radici che affondano nel profondo, chiome che non
svelano quello che c’è sotto, ma nascondono con le loro fronde. Il platano davanti a casa accoglie Antonio,
affamato di protezione e di stabilità, e la sua ombra lo nasconde.
“Perché non ci si fida della pelle, del corpo del folle, anche quando a fatica riesce a mascherare i danni
degli psicofarmaci?
Tanto dentro è rotto (pensa la gente), per quanto si voglia vestire bene, parlare con cognizione di causa,
dentro è spaccato, ormai lo sappiamo, non serve tenerlo nascosto.”
Nulla si rivela facile: perché uscito da un luogo di malattia, Antonio deve accettare un’altra malattia, quella
dei genitori, il padre inclinato da un lato, piegato dall’età e dai dolori, la madre sempre più piccola e fragile,
un bonsai delicatissimo. Antonio deve convivere con la macchia sul muro, ultimo segno dell’incendio che lui
stesso aveva appiccato alla sua casa, il suo plateale atto di ribellione e di follia: quella macchia con la sua
presenza ferisce lui per il suo gesto e ferisce i genitori per un senso di colpa atavico, che li porta a
interrogarsi su cosa hanno sbagliato. Non c’è colpa nella malattia, nonostante questo è difficile assolversi:
di fronte ai silenzi dolenti del padre e all’assenza sofferente della madre, Antonio può rispondere solo con
piccoli atti di accudimento, un piatto di cannelloni a ricostruire la famiglia.
Fuori casa, c’è la diffidenza del mondo ad accoglierlo, e a condannarlo. “È stato lì” è la frase che
rappresenta l’incapacità del mondo di accettare quello che non vuole capire.
E se la fiducia e la prudenza erano le regole della convivenza nella Casa delle farfalle, fuori da quell’ordine
monitorato e protetto c’è la confusione e la complessità della realtà, con tutte le sue contraddizioni,
difficoltà e pericoli. Perché il mondo è pericoloso, soprattutto per quelli come Antonio,” colombe, cerbiatti,
folli”.
Gli inquieti lo sanno, è solo l’ordine che li aiuta ad affrontare il mondo, un metodo per scomporre i
problemi, farli piccoli, classificarli, costruendo le possibili coordinate di una nuova vita in valori, convinzioni
e conoscenza. È una razionalità che aiuta a gestire le emozioni, una chioma che nasconde il sottosuolo. La
scrittura regola il respiro, allinea i pensieri, dà coraggio attraverso un sistema che colloca le cose al loro
posto per acquietare l’ansia.
La fragilità è capace di grandi lezioni di resistenza e di equipaggiamento, ma imparare un linguaggio per
affrontare la vita è qualcosa che sfugge il metodo e l’ordine del pensiero tridimensionale. Ha a che fare con
la comunicazione e l’ascolto. Perché la realtà confonde le carte, butta per aria qualunque organizzazione.
L’incontro con Rami, adolescente egiziano in difficoltà con gli studi, apre ad Antonio le porte di una
possibile fiducia, di un nuovo ruolo, utile nel groviglio della vita.
«Devo recuperare con una tesina».
«Argomento?»
«’Ste seghe interdisciplinari che tirano nella mia scuola».
Antonio aiuta Rami con lo studio, ascolta il suo gergo nuovo, giovane e insolente ma reale, abbandona le
nevrosi dei suoi rituali, e accoglie pure la lezione più difficile della sua nuova collocazione del mondo: che
fiducia e prudenza non bastano. Bisogna abbandonarsi, all’amicizia, all’amore, alla cura degli altri.
Sono sentimenti che non rispondono a nessun ordine, a nessun algoritmo.
Trovare la propria collocazione non è semplice come quando si è guidati, ma è un continuo assestamento in
un movimento di deriva, dove si perdono le proporzioni: per mettere radici e trovare una propria stabilità
serve però la terra, non il paradiso. Serve la difficoltà della lotta, serve la gradualità di piccoli passi, che
prevedono anche cadute, e qualche botta.
E in un mondo in cui ognuno ha il proprio manicomio da cui vorrebbe fuggire, gli altri sono l’unico modo per
guarire: bisogna avere il coraggio di potare le chiome, eliminare l’ombra, uscire alla luce.
Bisogna avere la pazienza di Giona nella balena: la pazienza di essere ingoiati e risorgere per approntare un
cammino nel disordine del mondo.
Dopo Beati gli inquieti Stefano Redaelli continua con Ombra mai più la sua riflessione intensa e poetica
sulla sorte dei fragili dopo la legge Basaglia. Lo fa con una scrittura raffinata che si tinge anche di ironia, e
partendo proprio dalla parola follia, che utilizza restituendole dignità umana e spirituale, liberandola dagli
stigmi sociali e riempiendola di radicalità e delicatezza.
“Tagliare la chioma non è grave come tagliare le radici. Se tagli quelle, sei finito davvero. Tu ora mi vedi
così: malridotto, si direbbe, perché vedi quello che c’è fuori. E ti si stringe il cuore. Ma non hai idea di cosa
ci sia qui sotto, fin dove arrivino le radici. La mia chioma sotterranea si estende oltre la tua
immaginazione. Io annuso il mare”.
Francesca Cingoli
Recensione di Francesca Cingoli