Magro come una sottiletta, goffo come una tartaruga, un ragazzino è davanti alla televisione. Mentre fa zapping, è fulminato da un cantante con un nome impronunciabile. Un pomeriggio come tanti si trasforma, così, in un evento biblico. In un terremoto emotivo. E mentre il cantante con il nome impronunciabile suona, suda, urla, dichiara di essere "nato negli Usa" (sì, parliamo di Bruce Springsteen), quel ragazzino perde in un attimo ogni certezza. E, in quello stesso istante, capisce che la sua vita è cambiata. Per sempre. Per lui ora ha senso una cosa sola: la musica. Quello che c'era prima viene, improvvisamente, spazzato via. Compreso l'intesa con suo padre, perché suo padre odiava il rumore, odiava il volume alto, odiava i ritmi forsennati. Odiava il rock'n'roll. A distanza di anni, quelle canzoni diventano la lingua con la quale quel ragazzino, ormai adulto, può raccontare la vita di suo padre: l'ammirazione, la disillusione, il conflitto, la depressione, la malattia, la morte. Attraverso una fitta rete di ricordi e nostalgie, intrecciando tutto al potere della musica, "Mio padre odiava il rock'n'roll" è assieme un racconto autobiografico, un saggio di sociologia del rock e un piccolo jukebox letterario/musicale.