Nella sua essenza, la filologia è l'arte di leggere e interpretare le tracce. Il compito del filologo è quello di non fidarsi delle cose narrate superficialmente, di diffidare degli slogan e delle narrazioni uniche e condivise. Il filologo, per sua natura, ha l'obbligo di cercare soglie di comprensione inedite, di metterle al vaglio, di difenderle. Egli ha cioè l'obbligo anche scientifico - un tempo si sarebbe detto che ha l'obbligo "morale" - di essere quello che oggi si definisce spregiativamente un "complottista". Con questa consapevolezza di filologia come scienza sociale oltre che umanistica, Francesco Benozzo "si espone" in queste pagine su diversi argomenti, raccontando la sua visione delle cose, fatalmente quasi mai allineata a quella corrente. E lo fa a partire da quella che a un certo punto definisce "un'avidità di imperfezione", unita a una percezione, fondata anche sulla poesia, ossessivamente disgustata della serialità dei gesti e dei pensieri umani, rivendicando la natura fondamentalmente eversiva della vera scienza, intesa, da Galileo in poi, come arte del dubbio e come ermeneutica libertaria e antidogmatica, in opposizione alla spudorata scientocrazia in atto.