Il romanzo di Fernando Acitelli innalza un tipo di vagabondo lirico, un attraversatore di Roma che non ha eguali, esentato com'è da relazioni quotidiane, obblighi e scadenze; è colui che è fuori dal mondo per legittima difesa perché emotivamente troppo conficcato in esso. Il Quadraro trattato come un ventricolo del protagonista ma anche come un ritaglio dell'animo: il battito non è dunque soltanto un'evidenza anatomica. Di tale quartiere, in particolare, egli si fa auscultatore raffinato e impotente dinanzi alla mutazione. Tutti i luoghi ad andatura popolare - quel che resta di simile sintesi - confortano e la già antica architettura, quand'anche ristrutturata, è resa con il dolore di chi l'attraversò in altre epoche o l'ascoltò nei racconti di chi la visse. Una storia del mutamento in cui ogni scorcio di città, dal Quadraro a Tor Pignattara al Pigneto alla umbertina Piazza Vittorio al centro storico assomiglia ad una catasta di fotografie scheggiate ma ancora vive nei personaggi, istantanee trovate in un cesto di vimini dentro un vis à vis degli anni '30. Che si passi da una lesena del Quadraro con tanto di iscrizione latina ad una lapide che ricorda in via Condotti la presenza di Giacomo Leopardi è per il vagabondo Fernando Acitelli, la stessa cosa.