Il saggio critico di Marco Fagioli esplora la pittura di Lucian Freud in tutto il suo sviluppo prendendo spunto dalla grande mostra sull'artista inglese tenuta nel 2002 alla Tate Gallery di Londra che lo ha celebrato come uno dei maggiori artisti del nostro tempo. Freud, paradossalmente, sembra fuggire dalla concezione del ritratto come definizione psicologica del carattere: i suoi volti sono ammassi carnosi con un'epidermide cotta dal sole, segnata dalle rughe, dalle chiazze paonazze dei vasi sanguigni, tirata sugli ossi sporgenti della scatola cranica, in dispregio di ogni modello di bello ideale. Siamo lontani, agli antipodi, da quel culto della bellezza classicista tanto coltivato dall'Accademia tardo neoclassica e dalla pittura pompier. Ecco in Freud, come in Rembrandt, si assiste a questo depositarsi di sensazioni fisiche del reale nella materia cromatica del dipinto, ed è per questa ragione, oscura e segreta, non evidente, che quasi tutti i critici parlano di carne e vene, di pelo di cane e panni, di odore e di tappezzerie sporche, nelle sue pitture. Ma non sono i soggetti ed i temi dei suoi quadri che generano tali sensazioni fisiche: è la natura medesima della sua pittura, la trama materica segreta che costituisce l'essenza stessa della vita che rende "identico" (Genet) ogni uomo agli altri.
Come Rembrandt, che quando dipinge sua madre registra scrupolosamente le rughe, le zampe di gallina, le pieghe della pelle, le verruche [...] quelle due teste di vecchia che si decompongono, che imputridiscono sotto i nostri occhi" (Genet, op.cit., p. 130), così Freud analizza le superfici corporee dei suoi effigiati, e anche per lui i ritratti della madre costituiscono un leit-motiv.
Marco Fagioli