Non ci mancano, sulle guerre nate dalla Lega di Cambrai (1509-1517), testimonianze di cronisti dell'epoca, che però si limitano a narrare ciò che avviene entro la cinta delle mura cittadine, o che, come il supercronista veneziano Marin Sanudo, affastellano notizie d'ogni dove. Ma la testimonianza di una guerra combattuta da un gentiluomo privato, e narrata dallo stesso, è cosa propria di Luigi da Porto, e di nessun altro nel Cinquecento. Guerra cui egli partecipa volontario, con la 'lieta furia' dei suoi vent'anni, baldanzoso e sicuro della propria forza e destrezza, ma anche curioso, attento, indagatore e pensoso. Nelle Lettere del da Porto si alternano e si fondono momenti di felice vitalità e drammi sanguinosi: le scaramucce fra cavalieri d'eccezione sotto gli occhi degli alti comandi veneziani, come in un teatro verde, a due passi da Verona; lo spettacolo, in Friuli, d'un commilitone ungherese la cui calma e folle audacia strappa un applauso a Luigi, d'un tratto trasportato nel mondo fiabesco e stralunato delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi spagnoli; le imprese della maestrevole e sinistra cavalleria leggera albanese al servizio di Venezia; l'orrore ipnotico delle esecuzioni capitali con i loro rituali di degradazione; l'imboscata al chiaro di luna fatta, si direbbe, come una serenata alla sua donna, col buio finale che precede l'alba, e il ricordo dell'inno a Venere di Lucrezio...