“Ma come si fa a ricominciare da capo, come si fa a lavorare in una lingua che non si conosce? Da dove cominciare? Come intrecciare una relazione con un’altra persona se desideri negare il tuo passato e la tua nazionalità?”.
Partito adolescente da Tirana, “discarica d’Europa”, alla ricerca di una vita possibile, lontano dalle devastazioni politiche del suo paese e da quelle emotive della sua esistenza, Bujar viaggia, in un’Europa senza confini, e all’interno di una New York che proclama mile possibilità: anche lui è senza confini, in grado di cambiare pelle, reinventandosi ogni volta.
Capace di essere maschio poi femmina, Bujar vive una fluidità complessa che è ricerca della propria identità, all’interno di una diversità che è compatita nella migliore delle ipotesi, marchiata d’infamia e di reato nella peggiore ma più frequente.
Com’è difficile guardarsi e riconoscersi e poi addirittura accettarsi: il viaggio disperato di Bujar da Tirana a Roma, a Berlino, Madrid, New York, Helsinki tra il 1990 e il 2003, è un percorso tra mille differenze, nella costruzione di una dichiarazione che non è possibile, è sentirsi sempre fuori luogo, nel contesto e con se stesso, è indagine e negazione di un’origine, e poi suprema e fatale autoaffermazione.
“Morire ed essere morti sono due cose diverse, aggiungerei. Si può essere morti in tanti modi. È nascondersi, smettere di parlare, non ricordarsi di mangiare e salutare i vicini. È non accorgersi di un semaforo rosso, non sentire né fame né sete, è voler morire ma non osare farlo perché troppo imbarazzante davanti ad altra gente, anche se manca il coraggio di farlo da soli, e così morire è in realtà sopravvivere, l’attesa della morte piuttosto che il suo verificarsi, come trovarsi a mezzo”.
La ribellione contro l’appartenenza e la nazionalità, contro ogni etichetta culturale e sessuale è la base del vagabondaggio di Bujar, che si porta dietro, come unico legame con le sue radici, le storie popolari del padre, racconti di uomini e dei e animali. E sono storie anche quelle che crea su di sé, proponendosi ogni volta nuovo, mettendo insieme pezzi di altre vite, indossando ricordi e vestiti altrui come fossero i suoi e presentandosi ricomposto come un puzzle, a ogni incontro che la vita gli regala.
Il fare i conti con le proprie contraddizioni è anche per Bujar il momento di scoprire la ricchezza delle molteplicità del suo essere possibile. “Sono vasto, contengo moltitudini” diceva Walt Whitman, e Bujar le contiene tutte e tutte le combatte, in ogni sua relazione, negando ogni definizione del suo genere, rivendicando fortemente il suo diritto alla libertà di essere tutto quello che vuole.
“Non sarebbe meglio concentrarsi sull’essere unici invece che sull’essere uomo o donna?”
Romanzo pluripremiato in tutto il mondo, Le transizioni è un racconto spiazzante sull’appartenenza e la solitudine, sofisticato e crudo insieme, duro di corazza, e struggente nel profondo.
Una vera consacrazione per il talento e la sensibilità di Pajtim Statovci, giovane kosovaro cresciuto in Finlandia, sorprendente nella maturità della sua scrittura che ha scomodato analogie con Camus e Kafka e ne ha fatto una delle voci più interessanti degli ultimi anni.
Recensione di Francesca Cingoli