La Venere dipinta nel 1830 da Hayez è indubitabilmente una dea nuova e 'moderna': una 'diva', appunto, come saranno chiamate un secolo dopo le stelle del cinema. Essa si distingue dalle sue omologhe create negli stessi anni dal pennello di Natale Schiavoni e dallo scalpello di Pompeo Marchesi proprio per il suo carattere contemporaneo e non retrospettivo. Moderno il corpo, moderni i lineamenti del volto e lo sguardo. Originale e riuscita la sintesi tra retaggio stilistico neoclassico, intemperanze romantiche e prime avvisaglie di realismo. Del tutto nuova quella «visione di sessualità e carnalità radiosa» - per usare le parole di Fernando Mazzocca - che l'artista poté creare grazie a un particolare rapporto di complicità col suo committente. In questo senso, il parallelo più appropriato va istituito con la Paolina Borghese di Canova, la Venere vincitrice, che fu moderna sotto ogni aspetto in mezzo al turbine sociale e politico dell'età napoleonica. Quella di Hayez fu invece la Venere della Restaurazione: pronta a uscire dalla tela per incamminarsi disinvolta nelle strade animate di Milano o nei vicoli angusti di Trento.