Al centro di questa autobiografia spietata non prevalgono le scoperte di successo, ma compare tutto ciò che generalmente viene omesso dalle monografie di ricerca tradizionali, ossia gli errori di comunicazione, i passi falsi, i grandi e piccoli conflitti quotidiani, vissuti nei paesi oggetto di indagine. Heike Behrend - etnologa e africanista tedesca - offre qui uno sguardo lucido e spietato sulla ricerca sul campo. Da questo memoir emerge quanto l'immagine riflessa dalle persone incontrate dai ricercatori sveli dinamiche di relazione e di potere insospettate. Vivaci resoconti dei soggiorni in Africa, che coprono un periodo di quasi cinquant'anni, restituiscono un'immersione profonda nella storia dell'antropologia. Nei nomi poco lusinghieri che Behrend riceve dalle persone che incontra - «scimmia», «pazza» o «cannibale» -, la ricercatrice non solo si confronta con l'esperienza straniante del paese straniero, ma si chiede quale verità esprimono questi nomi, quale storia coloniale. In breve, deve riflettere su come mutano i rapporti di potere tra «esploratori» ed «esplorati». Raramente un saggio di antropologia è riuscito a mostrare il difficile equilibrio del lavoro etnografico con tanta apertura. "La scimmia in bermuda" è un'autobiografia originale ed estrosa che spiega come ciò che conta nelle relazioni umane non siano tanto le differenze fra «noi» e «loro», quanto il riflesso reciproco della rappresentazione degli altri.