"Hanno qualcosa che inchioda. I versi di Martina Capezzuto mi colpirono subito, come la fiera supplica di una lottatrice. Perché vi è indubbiamente lotta, e strenua, con se stessa e con qualcosa di sè (retaggio, corpo, radice?) che pare inaccettabile e al tempo stesso si vorrebbe abbracciare, cercare con la sincerità di «albero reciso», con la sincerità della «destinazione/ di un treno». Ma dentro la lotta preme, in questi versi pieni di notte e di colloqui interrotti con «grandi occhi bui» o con il «passo che svanisce nel fuoco», una specie di chiusa invocazione. Chiusa dentro la lotta stessa, sua benzina e quasi feroce necessità. La chiusa invocazione della rottura di una solitudine accettata e terribile, mai pacificata. Ne vengono poesie mai compiaciute, sempre sul filo di uno stile abitato da sprezzatura e deviante. E quel che verrebbe da considerare acerbo, in un'opera così forte d'esordio, è invece il sapore acuto di quel che - citando nomi non casuali - Dylan Thomas (forse parafrasando la viriditas di Ildegarda di Bingen) chiamava la miccia verde della vita." (Davide Rondoni)