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“Nel mondo che era quando avevo otto anni tutti morivano, chi prima e chi dopo. Adesso nessuno è sicuro neanche di questo”.
L’anziano protagonista de La carne ricorda che settant’anni prima il mondo è improvvisamente cambiato mentre lui era solo un bambino. Improvvisamente, forse a causa di un morbo, le persone hanno infatti smesso di morire, e il mondo è diventato immobile. Molti sono ammalati, ma non morti: semplicemente hanno smesso di vivere. Sono zombi, che inoffensivi, fanno la fila davanti a depositi pubblici, aspettando di mangiare. La loro è una fame inesauribile di carne.
A ottant’anni, con molti acciacchi e una menomazione che l’ha segnato per sempre nella sua crescita e sessualità, il protagonista guarda il mondo com’è diventato: una realtà paralizzata e paralizzante, una degenerazione di un’umanità incapace di provare sentimenti, partorire immagini e simboli. Incapace di immaginare il proprio futuro.
“Nel mondo com’era quando avevo otto anni c’era un giocattolo nuovo da desiderare ogni giorno.”
I bambini sembrano felici, non mancano di nulla, ma non parlano mai del futuro. Perché dove non c’è morte non c’è nemmeno futuro, non c’è nulla da desiderare. Solo un eterno presente.
Esiste solo la carne, simbolo di fame, da ingerire o da consumare sullo schermo, in una pornografia che ha sostituito qualunque creatività e relazione.
Esistono solo le file di zombi, ogni giorno più lunghe, silenziose e affamate. Milioni di occhi.
C’è un altro personaggio ne La carne di Cristò, ed è Tancredi, un giovane medico che all’inizio di tutto cerca di decifrare quello che sta succedendo, di trovare un senso nei foglietti pieni di proclami e di lotta che le persone scrivono inconsciamente. Lo fa anche sua moglie, che, come tanti, sogna Averroè, subisce l’ipnosi di una collettività che non esiste più, l’illusione di essere far parte di una missione, di un tutto, e lo mette sulla carta.
Ma il mondo attorno si sta sgretolando, in un percorso ineluttabile che porta a una stasi senza punti di riferimento. L’anziano protagonista conduce da settant’anni una vita sospesa, nella quale non ha mai avuto il coraggio nemmeno di provare un caffè. È la vita di chi non esiste, e lo fa solo specchiandosi nelle vite altrui, cercando e collezionando immagini nel quale trovare un se stesso, nutrendosi di illusioni.
In un meccanismo narrativo perfetto nelle sue combinazioni e nelle sue stratificazioni, Cristò crea un contrappunto letterario e temporale tra i due protagonisti, tenendo insieme piani diversi di racconto per un romanzo che toglie il fiato, non appartiene a nessun genere, lascia attoniti e ipnotizzati. In questi livelli che si fondono è definita una visione escatologica che Cristò costruisce con sapienza, e con grande spregiudicatezza narrativa.
“Forse tutto rimarrà in equilibrio per sempre.
Forse smetteremo di morire anche noi.
Forse qualcosa si è congelato”
Cristò racconta un destino possibile, dove il male è rappresentato dal nulla: parla di esistenza e di umanità, affronta i temi cardine della metafisica facendone romanzo, racconto horror stupefacente e senza elementi di paragone.
Sarebbe facile parlare di romanzo pandemico, trovando somiglianze con la situazione attuale, sarebbe facile parlare di virus, che separa i sani dagli altri.
Ma quello di Cristò è un romanzo pubblicato nel 2016, e oggi ripubblicato con visione e coraggio da Neo. Sarebbe facile anche farsi sedurre dal tranello della predizione, ma vorrebbe dire banalizzare una lettura di per sé innovativa e potentissima, resa ossessiva e ipnotica dal martellante refrain. L’umanità è cambiata, e non esiste più il mondo di “quando avevo otto anni”.
“E’ tutto troppo complicato, più grande di noi. È una cosa che non possiamo controllare. Prendiamoci per mano e andiamo incontro all’estinzione”
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