«L'erranza di Anita Piscazzi costringe al raccoglimento e a una sorta di superamento delle rassicurazioni del realismo narrativo. E una poesia che si spinge o che ritorna nella sua parte più immateriale, impalpabile, metafisica, miste-rica. L'io che qui si manifesta, "seppure esule", è certamente unitario - e quindi il principio di realtà è in qualche misura riconoscibile -, ma il canto delicato di queste poesie spinge il sentire, i sentimenti e le percezioni in luoghi indefinibili e affascinanti, perché "l'occhio mio non vede che l'eterno". Il cammino di questa poetessa avviene ai confini più estremi del silenzio ("nel silenzio esondo, resto, affondo"), del superamento delle concezioni più consuete dello Spazio e del Tempo, della visione di universi lontani e di abissi interiori - laddove, cioè, s'ode "l'eco della non esistenza". È un misticismo sorvegliato, sobrio, umile, e tuttavia sapiente, di fattura raffinata; un rigoroso e ostinato "trasumanare senza fine", perché per Anita Piscazzi la poesia non è sentimento immediato e sfogo confessionale, ma calibrato ed elegante cammino - quasi un'estatica danza crepuscolare - nei segni dei misteriosi varchi e passaggi metafisici della vita, da guardare con occhi diversi per acciuffare ogni volta, in questo dire teso e docile, "lo spirito immateriale" ("sono tesa agli influssi dello spirito")...» (dalla prefazione di Andrea Di Consoli)