Il diritto al silenzio - saldamente ancorato alle garanzie costituzionali ed ai diritti naturali sanciti dalle Carte Internazionali a tutela di chiunque, accusato di reato, sia sottoposto a procedimento penale - si caratterizza per l'«assetto variabile» che ha via via assunto sia nelle varie epoche che hanno attraversato lo sviluppo della cultura giuridica, sia nell'ordinamento processuale nazionale a partire dal dopoguerra fino ai tempi recenti. La mutevolezza dei meccanismi a presidio della regola del nemo tenetur se detegere - secondo cui nessuno può essere obbligato a deporre contro se stesso - è derivata dalla necessità di assicurare un contraddittorio sempre più effettivo tra accusato e accusatore, culminata nell'approvazione della legge di attuazione del giusto processo e nella conseguente modifica dell'art. 111 della Costituzione. Ne è derivata una progressiva revisione dei meccanismi a presidio del diritto-principio (ius tacendi/nemo tenetur se detegere) - dalle molteplici implicazioni: inizialmente stritolato «dal rigore dell'apparato coercitivo volto a ottenere il rispetto dell'obbligo di verità», evolve verso dimensioni - prima - di «silenzio tollerato» e - quindi - di «silenzio protetto», il cui eventuale riconoscimento ha imposto un progressivo ridimensionamento della latitudine operativa. Passando dall'analisi nel tempo a quella dei tempi - e dunque dei luoghi - del procedimento penale in cui può trovare affermazione, la ricerca ripercorre la multiforme dinamica dei comportamenti adottabili dall'imputato in cui confluisce la "rosa" di situazioni estremamente diversificate attraverso le quali si esplica lo ius tacendi e che spaziano dal diritto a essere avvisato della facoltà di non rispondere, a quello di non essere obbligato a rendere dichiarazioni autoincriminanti, passando per la possibilità di tacere su tutto o di non dare risposta a singole domande, finanche di mentire.