Tilio e Fredi si trovano ogni giorno in sacrestia: ci sono cose da fare, la chiesa da sistemare, i pavimenti da pulire, i fiori da riordinare. Ogni dettaglio deve essere a posto per la messa, con l’arrivo del Don.
È Fredi il sacrestano, preciso, puntiglioso, di poche parole, ostinato nel voler fare tutto di testa sua, sordo alle raccomandazioni di Tilio, che si offre di aiutarlo, di alleviare il suo lavoro, che alla sua età inizia a essere faticoso. Tilio è il suo apprendista. Non è un ragazzo, è un uomo che ha vissuto, ha sofferto, con la morte della moglie, con i pettegolezzi del paese per la badante ucraina, con il figlio Paolo che la carriera e il matrimonio tengono lontani.
Ma Tilio conosce “la letizia”, sa accontentarsi delle piccole cose, essere apprendista sacrista gli piace, perché stare all’ultimo posto significa vivere senza paura, senza essere in gara: lui trova conforto in un sorriso, in una battuta, in un momento di attenzione che Fredi talvolta sembra non apprezzare. Ma per Tilio è importante: “Non si può vivere senza servire a niente”.
Per i due ci sono lunghe attese in sacrestia tra una funzione e l’altra: avvolti in una coperta di lana buona d’inverno, davanti a un piccolo ventilatore d’estate, si fanno compagnia a modo loro, condividendo un thermos di caffè allungato con la vodka, e qualcosa da mangiare. Sono momenti di fratellanza, nella loro diversità, che diventano scambi. Di tutto si parla, ma mai di politica, quello in sacrestia non si fa.
Si parla dei casi del paese, di chi c’è e di chi non c’è più, si fanno i conti col tempo che passa, e i conti non tornano mai. Perché per entrambi ci sono rimorsi, ricordi che la vita ha costretto a seppellire e che tornano fuori, chissà perché proprio adesso.
“Si diceva una volta: chi va al mulino, s’infarina. E così ti ritrovi addosso il tempo che hai macinato senza aver concluso nulla, resta solo da scuotere via la polvere rimasta sulla manica che se va con un soffio”.
Tilio cerca un senso nelle scritture che ascolta leggere in chiesa, e interroga il Don, interroga se stesso, e rimugina, lavora di parole, perché Tilio è fatto così. Deve capire le cose, metterle in fila, cercare una ragione che non è solo quella della fede. Non gli piace sentirsi chiamare figliolo con compassione, lui dal Don vuole spiegazioni, fatti.
Fredi invece sembra non interrogarsi, lui ha la fede, lui è stato un militare e conosce il potere delle regole, è solo grazie alle regole che non ci perdiamo.
Tra una messa, un matrimonio e qualche funerale, in una chiesa di provincia che vanta una pala di Tiziano e qualche visita di curiosi, i due profughi della vita si raccontano la vita vera: due uomini a confronto, due umili che hanno trovato una loro dimensione e una loro integrità semplice, che discutono sul caffè zuccherato, e sulle braghe beige di Tilio, che non piacciono a Fredi. “Il nero e il grigio scuro Anche il blu scuro. E basta. Il mestiere ha le sue regole”.
Alla fine, basta quello, stare seduti insieme, anche senza dirsi nulla. Ognuno coi propri pensieri, coi propri ricordi, con i debiti della propria esistenza. Che a parlare di cose serie c’è sempre tempo.
L’apprendista è un libro che si legge come una poesia, e che parla delle paure e dei desideri della vita, arrivando al cuore di un’umanità reale, sofferta e commovente. È un libro di realtà, storica, sociale, intima. Gian Mario Villalta, che è direttore artistico di pordenolegge, ha scritto con eleganza, dando forma a pensieri profondamente autentici e sinceri, che escono dalla sacrestia, dai confini del paese e diventano di tutti.
“L’amicizia è così, tra uomini, ci si comporta come ragazzi pure da vecchi”.
Recensione di Francesca Cingoli