Il carcere è innanzitutto spazio. È costrizione e predeterminazione di comportamenti tradotti in spazio. Nel nostro Paese, questa condizione si dà, molto spesso, in ambienti decadenti, inadeguati e vetusti; il carcere è un luogo fortemente multietnico, dove i conflitti sono compressi e trattenuti, dove la varietà delle figure presenti - dal punto di vista delle provenienze culturali e linguistiche - sembra prefigurare un futuro a venire per le nostre società e per le nostre città. Questo lavoro raccoglie alcune riflessioni che, nel corso del tempo, l'autore ha elaborato in forma di saggi, workshop progettuali e letture del rapporto tra architettura e luoghi di detenzione. Il materiale composito raccolto, se osservato nel suo insieme, si configura come una implicita indagine sul ruolo dei luoghi di detenzione all'interno della città ma anche sulla loro capacità di consentire alla pena di acquisire senso e di assumere un valore dignitoso, produttivo, civile. Il luogo estremo della detenzione è un oggetto insidioso per la cultura architettonica. Il carcere mette alla prova principi, logiche e consuetudini che, al confronto con lo spazio della pena, devono essere ridiscussi.