"Incompiuta bellezza" di Cristina Trinci è un romanzo crudele, in senso etimologico, che affonda nella carne sanguinante e restituisce identità a ciò che non si può umanamente descrivere, con una prosa priva di erranze, di leziosità, che non cede mai alla deriva sentimentalista pur lasciando spazio alla commozione. Firenze, 1968. Marisa, 19 anni, si innamora di un artigiano, Paolo. Invece di fare la rivoluzione, come aveva immaginato, si ritrova a fare un figlio, un incidente di percorso che le segna per sempre l'esistenza. L'amore per il piccolo stenta a partire, oscurato da rimpianti e sensi di colpa, risolvendosi in un rapporto conflittuale e violento che Marisa tenta di raccontare anche ai carabinieri, senza poi avere il coraggio di trasformarlo in una vera denuncia. Una narrazione che scava nel rapporto viscerale tra madre e figlio, descrivendo le aberrazioni della mente umana che trasformano l'amore nel suo doppio, nella quale i personaggi possiedono la neutralità dello stoico, che accetta in proporzione alle sue virtù o difetti il proprio stato e quindi il proprio fato. "Incompiuta bellezza" è la voce del torto che si fa umana per raccontarsi.