II rapporto con l'idea di "verità" accompagna fa storia del sapere umano sin dai suoi albori. Lungo questo percorso esso si è costituito ed articolato secondo le forme e fisionomie più diverse. Nella seconda metà del Novecento Michel Foucault, raccogliendo l'eredità di filosofi come Nietzsche e Heidegger e di storici come Dumézil e Canguilhem, ha assunto la questione della verità come centro di gravitazione della sua ricerca, conferendole un senso affatto originale. La verità non riposa più sulla struttura logica del linguaggio, sull'esegesi di un canone testuale vincolante o su una qualche epifania del metafisico. Essa è investita nelle pratiche, di cui costituisce il punto di raccordo e il distillato di senso. Per comprendere la verità occorre, secondo Foucault, più che rivolgersi alla tradizione filosofica, indagare le sedi in cui il potere allestisce procedure di "veridizione", tecniche tramite cui si sanziona la differenza tra normalità e follia, legalità e crimine, moralità e perversione, le quali tutte confluiscono nell'opposizione tra verità ed errore. In questo campo tensivo in cui la normalità è l'effetto di una normalizzazione, la regolarità della condotta di un disciplinamento e il controllo delle passioni di una sapiente pedagogia, la verità è custodita nelle strategie politiche, nelle regole del diritto, nelle terapie mediche, nelle codificazioni etiche del comportamento. Ed e nello scavo delle medesime che essa può apparire.