Un "Monoscopio opaco" potrebbe essere la trasposizione dell'Io di Bianciardi, proiettato attraverso un viaggio iperbolico nei primi decenni del dopoguerra. Un viaggio in bilico tra la provincia grossetana e Milano. È una Milano nevrotica, quasi schizofrenica, con la gente che giunge a fiumi e invade le strade. Con le sue case editrici, popolate da intellettuali persi in lunghe riunioni a dissertare sull'opportunità delle 'virgolette'. Tutto quel pensare, soffrire, agire e vivere è scrutato dall'"occhio giusto" di Bianciardi che si affaccia sul mondo attraverso il monoscopio della neonata Tv. Impossibile comprendere la sua disintegrata personalità senza ricorrere a un affresco ampio di quegli anni, popolati da luoghi, testi, giornali, film, trasmissioni, canzoni, tutti evocativi di un periodo in continua evoluzione, in febbrile trasformazione creativa. In quel mondo si è mosso Bianciardi, un precursore tradizionalista, un innovatore senza un programma, un fotografo senza macchina fotografica, un bohemienne senza tavolozza, un flaneur senza città, un rivoluzionario senza un manifesto, insomma, l'antitetico per antonomasia.