01/09/2006
Di undicidipicche
5 stelle su 5
L'autore, come dichiara nella breve dedica d'apertura, è figlio di un sopravvissuto allo sterminio; ma non è una storia di famiglia o un libro di memorie quella che risulta fino ad oggi l'unico studio sistematico sull'esperienza dei deportati della Liguria, regione coinvolta e permeata profondamente dal movimento resistenziale. La scansione dei momenti che vanno dalla cattura operata dalle truppe d'occupazione fino al ritorno ed al difficilissimo reinserimento, è supportata dai passaggi logici dello storico che non sempre vuole essere tale o meglio si propone come attento e lucido osservatore, rinunciando ad una facile e scontata commiserazione. Riconoscendo (certo per le esperienze pregresse in famiglia) le situazioni, il linguaggio, le reazioni umane di chi abbia avuto il destino di ritornare e potere raccontare, l'autore rende ad essi dignità e l'avere resistito al peggio di quanto umanamente possibile è motivo di orgoglio. A differenza di quanto citato nell'epigrafe di Hannah Arendt, non c'è "indugio negli orrori", a meno che non si voglia chiamare così la incessante disamina dei fatti reali e verificabili che comprendono tutti gli aspetti dell'esperienza dei deportati: il rapporto con le leggi brutali del campo, la violenza di kapò ed SS, la fame, la morte sempre temuta e contemplata nei compagni del campo, il lavoro coatto e la disperazione vissuta tanto nelle tremende giornate della prigionia come nel logorante periodo del ritorno e del tentativo di ricostruirsi una vita. Più voci forniscono la loro inoppugnabile testimonianza su ognuno di questi tragici aspetti ed in ciascuna di queste voci si riconosce l'eco della domanda, certo dolorosa, posta da chi è venuto dopo. Il senso di questo libro è uno solo: non si sarà mai "ex" deportati e i confini del campo non si valicano mai più. I racconti degli uomini e delle donne qui riuniti ci giungono a quasi sessanta anni dal fatto storico: forse non è mai tardi per le parole chi ritorni dall'inferno.
Francesco Do