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Il primo volume della Saga dei Barrøy è un’incantevole storia delle piccole cose.
Primi del Novecento: il vecchio Martin, con Hans, la sorella Barro, la moglie forestiera Maria e la figlia Ingrid vivono su un isolotto che è poco più che uno scoglio, a sud dell’arcipelago Lofoten, al largo della costa norvegese. Sono gli unici abitanti, lontano da tutto e tutti.
Gli invisibili è la loro vita, giornata dopo giornata, inverno dopo inverno. Sono le tempeste a segnare il tempo che passa, le stagioni che vanno, il gelo che spezza il fiato e ghiaccia la terra, finché non torna la primavera. Si coltiva un fazzoletto di terra, e si vive di quello che c’è.
“Nessuno può lasciare un’isola, un’isola è un cosmo in miniatura, dove le stelle dormono nell’erba sotto la neve. Ma capita che qualcuno ci provi. E quel giorno soffia una brezza leggera da est.”
Quando arriva suo fratello col peschereccio, Hans parte per la pesca alle Lofoten, e le donne aspettano.
L’economia dei Barrøy è fatta di poche semplici fondamentali cose: i piumini, pregiatissimi, che richiedono un lavoro attento, e mani precise, le uova, le reti da aggiustare, e la torba, che è una ricchezza.
Quando il vento non distrugge ogni cosa, si comprano attrezzi e legname giusto per costruire qualcosa di utile, opere severe e ancorate alla terra. Una cisterna, un capanno per le barche, quello che serve.
Ci si muove con le færing, a vela, in un silenzio che è compagno, ambivalente come la natura, accogliente e minacciosa. Si convive con gli umori del mare, e del cielo: le tre generazioni di figli di Dio sono immerse in un mondo immutabile, di spazi e tempi immensi.
È un mondo arcaico, in cui le storie dell’uomo sono strettamente legate a quelle dell’ambiente che comanda, padrone indecifrabile di un universo in cui l’uomo è piccolo, poca cosa.
È un mondo, soprattutto, dove si cresce in fretta, dove anche i bambini devono fare la loro parte, e chi può viene portato al di là del mare, su un’altra isola, a servizio. Perché sull’isola di Barrøy si vive con la concretezza della sopravvivenza, con la sedia fabbricata solo a chi è grande abbastanza, e gli altri in piedi.
Si mette da parte qualche soldo per comprare zucchero e carote, ci si industria.
“Il silenzio li stupisce. È misterioso, quasi un brivido di attesa, un forestiero senza volto che percorre l’isola a passi felpati, avvolto in un mantello nero”.
Quando si va a scuola, sulla terraferma, si impara a nuotare, perché i figli degli isolani devono saperlo fare. Eppure, il mare non fa paura, anche quando è tempestoso: un’isola non può mai affondare.
Gli invisibili racconta una vita indaffarata ma immobile: si nasce e si muore con semplicità, con la stessa naturalezza con cui si cava la torba e si curano le pecore. Fa parte della vita.
Sembra un piccolo mondo autosufficiente e a suo modo sereno: sono poche le visite, un pastore, una levatrice. Vivono isolati, i Barrøy: per loro esiste solo l’isola, lo stabilimento per fare rifornimento, la scuola per farsi le trecce e nuotare. Maria, che viene da un’altra isola, sogna altri bambini e un’altra vita, e qualche volta sogna anche di andarsene ma resta sempre, ancorata al suo scoglio, indaffarata di mille straordinarie piccole attività con lo sguardo obliquo della forestiera che ha immagini con cui fare paragoni.
È solo un umano a portare inquietudine, un galeotto che arriva, in fuga dalla prigione, e lascia ai Barrøy lo stupore e la scoperta della paura, di una minaccia che può venire anche dall’uomo. Allo stesso modo, un gruppo di muratori svedesi arrivati lì per colpa della guerra, è un’intrusione della storia in un mondo viceversa scollegato: la modernità è rappresentata dalla costruzione di un nuovo molo che lascia presagire un cambiamento di vita possibile, e dalla personalità della piccola Ingrid, capace di prendere in mano le redini della famiglia.
Gli invisibili è un romanzo che ha il linguaggio di un diario, semplice, concreto, raccontato in un tono quasi sommesso, un’apologia di una vita passata, dura ma piena di bellezza, di gente di mare schiva ma sincera.
È una storia quotidiana, fatta di piccoli gesti, attentamente descritti, e immensi orizzonti, guardati con l’occhio della meraviglia. In quell’immensità, che Roy Jacobsen carica a tratti di solennità, l’uomo, visto da lontano, è un puntino insignificante, quasi invisibile.
“Così passano i giorni, a gennaio.
E per altri tre mesi di gelo, tormente e satanassi.
Finché un giorno, stranamente, la serietà s’illumina di una speranza nuova, che cresce insieme al sole nel cielo nero.”
Francesca Cingoli
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