L'età d'oro del minimalismo va dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta. È l'arco di tempo nel quale compositori come La Monte Young, Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich e John Adams perfezionano una musica basata su brevi cellule tonali o modali, incessantemente ripetute e progressivamente modificate. È anche l'epoca in cui la poetica del minimalismo si fa strada in una zona intermedia tra musica d'arte e popular music attraverso l'opera di compositori concettuali quali Brian Eno e Alvin Lucier, e performance artist come Laurie Anderson. Il minimalismo realizza nei fatti, immediatamente e quasi gioiosamente, una critica radicale al formalismo seriale o aleatorio degli anni Cinquanta e Sessanta. È, a suo modo, l'ingresso del postmoderno in musica, una seducente compresenza di arcaismo e avanguardismo che sembra azzerare le pretese di un progresso negli stili, e che necessita di una "filosofia della musica postmoderna" così come le avanguardie del Novecento avevano dato spunto a una "filosofia della musica moderna". Come forza propulsiva, il minimalismo classico è oggi invecchiato, ma ha disseminato ovunque le sue tracce, in particolare nell'elettronica e nella techno. Questo libro ripercorre le origini di un movimento che, marginale come sembrava, ha di fatto cambiato il volto alla musica. Ma ha anche l'ambizione di fornire una teoria del particolare piacere fornito dalla ripetizione in musica, collegandolo a un'ampia visione filosofica che attraversa tutta la modernità. Prefazione di Luca Cerchiari.