Nella solitudine del castello di Uzès, mentre l'impero carolingio agonizza nelle faide dell'aristocrazia franca, una donna dal cuore "ardente e vigile" compone il Manuale per l'educazione di mio figlio Guglielmo (843). Figlio di Dhuoda e del duca Bernardo di Settimania, Guglielmo aveva allora diciassette anni ed era ostaggio alla corte di Carlo il Calvo, dove morirà giustiziato sei anni dopo. Il Manuale è pertanto il tentativo di un dialogo impossibile; ma anche uno speculum, dove il lettore è chiamato ad assimilare la propria condotta a quella di un modello, fino a rimuovere ogni differenza tra i due volti al di qua e al di là dello specchio. Il testo è di carattere composito, un misto di prosa e versi dove si intrecciano riferimenti patristici, biblici e sparse reliquie di testi classici. Accanto a temi più tradizionali, come la devozione a Dio, al re e al padre, vi compaiono brani curiosi quali le divagazioni di aritmologia o l'invito a leggere e a formarsi una biblioteca, tanto più sorprendente, oltre che per i tempi, per il fatto che a scriverlo, in quei secoli difficili, è una donna. Ma Dhuoda è scrittrice coltissima e al contempo appassionata, e il suo Manuale formula un modello pedagogico compatto e coerente, aristocratico ed evangelico, personale e universale. Se Guglielmo, travolto dalle bufere di quell'età di ferro, non potrà rispondere all'invocazione materna, la scrittura rappresenterà per Dhuoda "una epistola consolatoria scritta a se stessa" (come scrive Massimo Oldoni), un modo per trattenere, almeno tra le righe, il sogno di un ideale.