Negli anni Sessanta e Settanta operò nella Germania Occidentale l'organizzazione clandestina di lotta armata Rote Armee Fraktion (Frazione della Armata Rossa). I mass media la fecero conoscere come la "banda Baader-Meinhof", denominazione che deliberatamente snaturava la sua essenza politica. L'autobiografia di Margrit Schiller, militante della RAF tra il 1971 e il 1979, è una di queste poche e singolari testimonianze. Il racconto in prima persona concede al lettore il privilegio di conoscere ciò che accadeva all'interno die gruppi della guerriglia urbana tedesca, di immergersi nei loro dibattiti idologici e di partecipare alla discussione sulle azioni da compiere. La vita di Margrit Schiller si inquadra chiaramente nella generazione del '68: una ragazza sensibile che si lascia alle spalle l'ambiente autoritario della casa paterna e si ribella contro le convenzioni e l'autoritarismo borghese. Alla ricerca di un'attività solidaristica, entra in contatto con l'antipsichiatria, con il movimento studentesco ed infine con Ulrike Meinhof e Andreas Baader che la inizieranno alle prime azioni clandestine. Con una sincerità totale, a volte persino dolorosa, Margrit Schiller riflette sui suoi anni di militanza nella RAF, descrive gli anni di prigionia nel padiglione d'isolamento totale, il cosiddetto Toter Trakt, gli scioperi della fame e la durezza implacabile dello Stato contro i membri della guerriglia, considerati il nemico numero uno della "democrazia" borghese. La sua visione degli avvenimenti, pur non ripudiando in alcun modo il passato, non si presta neppure a far della RAF e della lotta armata un mito. Margrit Schiller non aspira a raccontare "la verità assoluta" su questo gruppo e sulla società tedesco-occidentale. È soltanto la sua storia personale, che ha numerosi punti di contatto con quelle di molti giovani di altri paesi, particolarmente dell'America Latina di quegli anni.