Se in altri suoi libri Thoreau ci conquista soprattutto per la sua capacità empatica di immergersi nella natura, in Disobbedienza civile siamo di fronte al filosofo engagé, al pensatore che, parola dopo parola, metafora dopo metafora, organizza le sue teorie con grande finezza e assoluta intransigenza, costringendo il lettore a riflettere sul posto che occupa all'interno di uno Stato, nel suo caso quello americano, ricco al pari di molti altri di contraddizioni e incoerenze. In questo scritto del 1849, destinato a una lunga fortuna, la questione del rapporto tra Stato/comunità e individuo è affrontata a diversi livelli. Thoreau non può tacere il problema americano della schiavitù («Neppure per un istante posso riconoscere come mio governo un'organizzazione politica che è anche un governo schiavista»), ma la questione di fondo che pone è più generale e investe il rapporto del cittadino con qualunque Stato e in qualunque tempo: per il filosofo una legge ingiusta è una forma di violenza alla quale ci si deve ribellare, in modo pubblico e non violento. Proprio per questo Disobbedienza civile può essere considerato l'atto di nascita di quella forma di lotta politica che è la resistenza passiva.