Al capezzale della madre morente, la figlia Memi - ormai adulta e psichiatra a Milano -, seguendo il lento e muto gocciolio della flebo, scandisce l'azzanno di un suo dolore mai sanato, solo narcotizzato, lo scippo d'un affetto materno dovuto ma negato, mendicato in penombra. Alla morte della madre, Memi torna in Sicilia, stregata da un "disìo" carnefice e salvifico a un tempo, insensato e irrinunciabile, disperato e incomprensibile per chi non si sia mai abbandonato al canto delle sirene. Partecipa come dirigente medico a un concorso in Ospedale, concorso già manipolato, già infettato. Nulla è mutato dunque, il lutto del Diritto è ancora lutto, la Giustizia è solo un nomen, l'omertà è ancora calvario, sotto il peso di una nuova e più potente mafia, che veste in camice, in toga, in giacca e cravatta, e vanta curricula di prim'ordine. Combattuta tra tornare a Milano e restare, Memi resta a lottare in una terra arsa e disperata, per una terra magica e maciullata, decisa a vivere l'unica maternità possibile, il "disìo".