"Il sogno di Platone: far scrivere Socrate, e fargli scrivere ciò che vuole, le sue ultime volontà", così commentava estasiato Derrida, osservando un antico frontespizio che ritrae Platone nell'atto di dettare a Socrate scrivente. Questo sogno platonico si avvicina alla pratica traduttiva che il saggio di Lorenzo Flabbi indaga nell'opera di Laforgue (che imita Leopardi), Lowell (imitatore di Montale), Caproni (nel suo Quaderno di traduzioni), e persino del fantastico personaggio borgesiano Pierre Menard, nonché, sotto diversi aspetti, di Leopardi, Praz, Ungaretti. I protagonisti di questo percorso critico hanno in comune il dato dell'assorbimento di sé nell'altro, della compenetrazione nei motivi intimi dei testi poetici che hanno tradotto. Viene qui esposta una poetica della traduzione come apertura all'ospitalità della lingua, così da permettere anche a noi non immortali di essere grandi, diventando Socrate, parlandolo con la nostra stessa voce. Tradurre diventa dunque riscrittura di un testo dall'interno: dall'interno del testo stesso, certo, ma anche della poesia che ci risuona dentro.