"De la lang(ue)" di Antonio Belfiore è un'opera dal confine mobile e sottratto sempre, anzi inconfinabile, e non solo col vantaggio spericolato di una giovane età. Perché il fluttuare del suo centro di emittenza è determinato da uno specialismo quasi impossibile da parte dell'autore: infatti i concetti di autorialità e de-autorialità, sottratti al punto giusto, ne fanno un testo di ottimo livello. Il plurilinguismo (di cui il testo è greve, tra lingue arcaiche e quasi sacre e moderne, dettate in forma postmoderna e indicizzate secondo un livello della non riepilogazione dei fatti) è solo la maschera (consapevole e voluta) di un atto da farsi e non da farsi che è la poesia, intesa come cosa che resta al fondo, ma non precipitata. Frammento e inferenza di un discorso più ampio, la poesia permane oltre tutto. Oltre anche la medesima coscienza d'azione del poeta, che ora è un poeta, altra un attore. È lo Stato delle cose, laddove muoiono i semantemi e permane il canto (impossibile) nella declinazione mirabile di un testo/atto ancora possibile, molto oltre gli svariati preziosismi scenici (endecasillabi frequentissimi, etc) di cui è capace questo autore.