Il teatro di William Shakespeare è una sorta di scrigno infinito, uno specchio magico in cui ritrovarsi e riscoprirsi. Cesare Catà si muove tra le opere del Bardo come dentro una mappa fatata della nostra anima. Quasi che i suoi personaggi avessero il potere di condurci a capire meglio la nostra psiche. A fare i conti con le paure, le gioie, le disperazioni e gli entusiasmi che ci portiamo dentro, in quella continua interpretazione di noi stessi che è il nostro destino. Le combinazioni formate dalle 31.534 parole che compongono i copioni del canone shakespeariano sembrano miracolosamente disegnare l'intera gamma delle passioni umane. Il Bardo non offre ricette, non dispensa dettami, non impartisce giudizi. Ma ci suggerisce di attraversare il caos del bosco per ritrovare la luce della ragione, di ancorarci al centro della tempesta per rinascere più miti e più forti, di dar voce ai nostri fantasmi per diventare noi stessi. I pensieri e i gesti di Ofelia e di Amleto, di Falstaff e di Macbeth, di Desdemona e Cleopatra, di Giulietta e Romeo, possono farci comprendere a un livello più profondo cosa vuol dire amare e soffrire, cadere e rinascere, desiderare, vendicarsi, morire. Se è vero che siamo fatti della materia di cui sono fatti i sogni, e che tutto il mondo non è che un palcoscenico, non ci resta che recitare la nostra parte. E, di fronte alle pene e alle occasioni della vita, chiedere consiglio a Mastro Will. Perché «se lo interroghi con cura e passione, ti risponderà dritto al cuore».