A metà degli anni ottanta, in tempi di Neo-espressionismo viscerale o di scritture dell'inconscio, Chiara Dynys ha intrapreso un lavoro artistico che esprimeva un forte bisogno di progettualità, diciamo pure di ordine, visivo e mentale, al culmine di tanto disordine pulsionale. Le ricerche degli anni novanta, nell'ambito delle quali si è distinta, sono stati infatti contrassegnati da un nuovo bisogno di distacco emotivo, di razionalità progettuale. Gli anni erano quelli del Postmodernismo ormai declinante, ma anche quelli della crisi della ragione classica, e quella generazione di artisti si trovava ad affrontare un compito non da nulla: riprendere il pensiero critico che quella crisi aveva generato senza produrre alcun "nichilismo reattivo', nessun accomodamento ideologico, nessuna visione del mondo organica, e consolatoria. Naturalmente, anche nessun ritorno all'ordine modernista. Non a caso l'astrazione geometrica che sorgeva in quegli anni proprio in reazione all'espressionismo esasperato ("Neo Geo" et similia) non si voleva come una nuova normativa, ma attraversava i variegati campi della trasgressione. Una razionalità che contiene la propria trasgressione, o l'evocazione di una normativa meritevole più di essere contraddetta che adempiuta, così potremmo definire il lavoro di Dynys in quei tempi.