"Oggi ti vorrei raccontare un poco di Cézanne. Per quanto riguarda il lavoro, così afferma, ha vissuto da bohémien fino ai quarant'anni. Solo più tardi, con la conoscenza di Pissarro, ha preso gusto al lavoro. Ma, allora, fino al punto di passare gli ultimi trent'anni della sua vita non facendo altro che lavorare. Senza gioia invero, come sembra, con una rabbia incessante, in conflitto con ogni sua singola opera, perché nessuna di esse gli sembrava raggiungere ciò che egli riteneva essere la cosa più indispensabile. La chiamava la réalisation, e la trovava nei veneziani che aveva visto e rivisto al Louvre e apprezzava incondizionatamente. Il convincente, il farsi cosa. La realtà sublimata fino a divenire indistruttibile attraverso la propria esperienza dell'oggetto, era questo che gli pareva l'intento più intimo del suo lavoro; vecchio, malandato, ogni sera consunto fino allo spasimo dal regolare lavoro giornaliero (tanto che spesso andava a dormire alle sei, all'imbrunire, dopo una cena mandata giù distrattamente), arrabbiato, diffidente, deriso ogniqualvolta si recava al suo atelier, schernito, maltrattato... sperava un giorno, di raggiungere quel compimento che egli sentiva come l'unico essenziale. In tal modo [...] egli aveva esacerbato le difficoltà del suo lavoro nella maniera più ostinata... si muoveva avanti e indietro nel suo studio, che aveva la luce sbagliata, in quanto il capomastro non aveva ritenuto necessario dare ascolto a quel vecchio bizzarro che ad Aix erano tutti d'accordo nel non prendere sul serio [...]». Così scriveva il poeta Rainer Maria Rilke a sua moglie Clara Westhoff, scultrice, il 9 ottobre 1907 da Parigi, dopo un'altra intensa visita alla grande retrospettiva che il Salon d'Automne dedica a Paul Cézanne a un anno dalla sua scomparsa." (dal saggio di Stefania Lapenta)