In un'epoca in cui le neuroscienze hanno fatto il loro ingresso trionfale anche nei tribunali italiani, influenzando, con l'ausilio delle tecniche di neuroimaging e di genetica comportamentale, il giudizio sulla capacità di intendere e di volere degli imputati, questi interrogativi diventano ormai ineludibili. Nel momento in cui ad uccidere non è l'uomo ma i suoi geni o il suo cervello, venendo meno il tradizionale concetto di libero arbitrio, si pone il problema della conciliabilità dei concetti di imputabilità e responsabilità penale adottati dal nostro ordinamento con tali istanze deterministiche. Per sciogliere tale nodo problematico, che costituisce la posta in gioco dell'attuale dibattito tra neuroscienze e diritto, è opportuno comprendere se quello attuale rappresenti uno scenario inedito o se riproponga, al di là dell'ovvia diversità del contesto, quello di fine dell'Ottocento, segnato dalla pubblicazione de L'Uomo delinquente di Cesare Lombroso, il cui nocciolo duro è una concezione del delitto come fenomeno naturale. Pertanto è utile rileggere senza pregiudizi l'opera di Lombroso per capire se oggi i neuroscienziati che rigettano le sue tesi su crimine e devianza, ritenute un'anticaglia ottocentesca, stiano in realtà compiendo un parricidio mancato, riproponendo lo stesso paradigma che cercano, in tutti i modi, di negare.