Poesia di "visioni", questa di Eugenio Mazzarella. Visioni che si accendono a farsi parola, "sopra pensiero", nella "cosa che pensa" - "che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente". Cartesio che si fa Abacuc, il profeta che aspetta che cosa gli dia da scrivere il Signore. In una lunghissima calma, poesia che guarda il sorgere e il perire delle cose, il loro andare per il mondo che va via, a cominciare dagli occhi di chi guarda; che trascrive il dettato del "Golgota delle cose" che la coscienza ha voluto vedere scalando le mura del giardino della natura, per vedere fuori. E trovando fuori - dalla fisica, dalla natura - solo la fisica che muore, cioè noi, l'unica meta-fisica conosciuta. E tuttavia un'illusione - "che l'anima potesse essere casa/ presidio di qualcosa" - in cui tenere campo con dignità in un "cerimoniale" di presenza, "perché nella vita/ il posto è/ dove trovi posto". Cerimoniale che chiude Opera sesta, silloge che considera ai settanta della vita "il grande Sistema del Silenzio" davanti alla Sapienza - il Poemetto di chiusura - che perdona.