Interviste e narrazioni, 1973-2013. Perché pensi che il rock sia la musica più popolare negli Stati Uniti? «A me il rock ha cambiato la vita: quando da ragazzino lo ascoltavo alla radio, era come se in casa mia fosse entrata la Voce dell'America, la Vera America. Era una specie di liberazione, e quando scoprii la chitarra mi ritrovai in mano la chiave della mia esistenza... Avevo idee molto serie a proposito della musica rock. Certo, era anche un circo, un divertimento e una festa da ballo - tutto in una volta - ma continuava a essere una cosa seria. Credevo che col rock si potessero fare delle cose serie. Aveva forza, aveva una voce. Continuo a crederlo, cazzo! Ci credo davvero». Sei sempre stato in movimento: cosa ti spinge on the road? «Amo andare on the road per incontrare persone che non conosco... Andare in Francia, Germania e Giappone, e conoscere giapponesi, francesi e tedeschi. Conoscerli e capire cosa pensano, e essere in grado di andarci portando qualcosa. Andarci con una manciata di idee, o magari andarci con qualche altra cosa, e essere in grado anche di ritornare da là con qualcosa. Così, bum!... Se il prezzo della fama è che si deve essere isolati dalle persone di cui si scrive, allora è un cazzo di prezzo troppo alto da pagare». Hai tre figli. Come reagiresti, se uno di loro ti dicesse: "Credo di essere gay"? «Qualunque sia il suo orientamento sessuale quando crescerà, penso che accettare l'idea che il tuo bambino abbia una sua vita è la cosa più difficile che ci sia. La sua vita comincia, e te ne accorgi, nello stesso momento in cui fa i suoi primi passi nel mondo. Quando sono cresciuto io, credo che per mio padre sia stato molto difficile accettare il fatto che non ero come lui, che ero diverso. O magari ero come lui, e a lui non piaceva quella parte di se stesso, il che è più probabile. Ero un bambino dolce, gentile... Ero un ragazzino sensibile. Credo che la maggior parte delle persone che si danno all'arte lo sia. Ma la sostanza è che per me la mancanza di accettazione è stata devastante».