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Dopo tanti studi su libri e manuali, Antonio, ricercatore all’università, vuole conoscere da vicino la follia. Trova una clinica psichiatrica adatta al suo scopo nella Casa delle farfalle: d’accordo con la dottoressa, viene accolto come paziente. Il suo obiettivo è ascoltare, da dentro, le storie degli altri ospiti della struttura, entrare nella loro oscurità, per raccontare attraverso le loro parole, le loro voci e i loro volti.
Perché per capire la follia bisogna ascoltarla, farne esperienza, e poi narrazione, che produce significato e interpretazione. Antonio crede nel valore terapeutico dell’arte, che è una risorsa preziosa per tutti. La scrittura è un lavoro attento di cura, come seminare un giardino: le parole sono piante che crescono, se ben accudite, e portano vita, e immagini. È sempre stato così per lui, che ha trovato nella scrittura non solo il suo strumento di studio, ma anche di comprensione del mondo.
“Scrivo anche qui dentro: una specie di diario al presente.
Tutto deve essere registrato, ogni cosa, pensiero, voce.
Passare i moti dell'anima al vaglio della parola, diceva Sant'Ignazio. Passare moti della mente al registro del tempo, dico io.
Scrivere mi aiuta a tenerlo sotto controllo.”
Fiducia e prudenza: sono le parole d’ordine che Antonio riceve all’ingresso della Casa delle farfalle.
Ed è con fiducia che si mette accanto ad Angelo, Carlo, Simone, Marta, Cecilia. Condivide letture e fiori, esperimenti creativi e fantasie. Indossa trucchi e maschere per essere come loro, entrare in un mondo che è pieno di fantasticherie e invenzione.
Si colora la faccia, mastica pagine del Piccolo Principe, indossa corone, Antonio: la sua settimana di permanenza nella clinica diventa due settimane, poi tre. Sordo dall’invito della dottoressa di non entrare in relazione troppo stretta coi pazienti, Antonio non mette in atto la prudenza, ma si immerge completamente nel loro spazio invisibile, toccando quell’intuizione dell’indicibile di cui parlava Eugenio Borgna, riconoscendo alla fragilità umana valori di sensibilità e di delicatezza che le consentono di entrare più facilmente a contatto con gli stati d’animo e le emozioni altrui.
Per Antonio, osservare da vicino i folli - che chiama sempre così, con un senso quasi primitivo, popolare e senza giudizio - significa mettersi davanti a uno specchio che rimanda verità. Nel loro essere pieni di vita e di poesia, folgoranti nei loro deliri e nelle loro fantasie, gli uomini e le donne della Casa delle farfalle sono lenti di ingrandimento della realtà. Sta lì il loro pericolo, è questo che la normalità rifugge, avvolgendo di indifferenza il mondo del disagio mentale, che fa paura, perché mette di fronte a noi stessi.
“I matti leggono l'anima.
Quando ci guardano, non ci si può nascondere.
D'un tratto dicono una cosa, magari assurda, non si sa che cosa c'entri eppure ci riguarda, parla di noi. Ci hanno visto.
I matti spogliano.”
Insieme al vociare pirotecnico e pieno di emozione, quello che fa riflettere Antonio è soprattutto la distanza dal mondo cosiddetto normale, la solitudine, l’ostracismo subito e quell’essere distaccati e “sconnessi” che porta con sé il privilegio di una visione più autentica, senza menzogna, come in una lente, come nel vetro.
Di fronte a questa realtà senza filtri, si rischia di impazzire a nostra volta, perché costretti, come Antonio nel corso della sua permanenza da paziente, a guardare dentro la propria storia, a riconoscerla e accettarla.
L’oscurità si riempie di lampi di luce, atterra su una serenità che è dettata dalla chiarezza. La beatitudine di stampo biblico, che apparteneva agli afflitti, ai poveri di spirito, ai misericordiosi, diventa prerogativa dell’inquietudine, in un ossimoro meraviglioso che costruisce una speranza nella contraddizione e restituisce alla follia la sua fragile e poetica umanità che ci fa conoscere di più noi stessi.
Candidato al Premio Strega, Beati gli inquieti di Stefano Redaelli dà vita a una polifonia lirica e potente che nasce da un ascolto fiducioso, da un cammino imprudente e per questo puro e rispettoso nella malattia, e nelle sue voci, che sono struggenti e delicate. Tra malattia e beatitudine è appunto il ruolo che Redaelli conferisce alla scrittura, strumento di vicinanza e di pietà, mai di compatimento: un continuo movimento attraverso il deserto, un cammino interiore di scoperta e di vita, e l’accettazione di un eterno e disordinato divenire.
Beati gli inquieti è un libro di umanità abbagliante e di folgorante bellezza.
“DI-IO. DI-IO.
Dire io. Dire chi sono veramente. Per farlo devo dire gli altri: i beati con cui vivo.
Il mio io è frammentato nelle loro voci.”
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