"A volte mi è stato obiettato che alla fin fine il concetto di A.M.I. non porterebbe nulla di nuovo rispetto a quello di fantasia inconscia illustrato magistralmente a suo tempo da Susan Isaacs (1948). Un'obiezione che spero di avere confutato con i lavori qui pubblicati mostrando in qual modo, seppure tra i due concetti vi sia ampia coincidenza, quello di A.M.I. si caratterizzi per la fondamentale valorizzazione del comportamento del paziente rispetto alla fantasia inconscia che lo sottende nel contesto di una specifica situazione relazionale. Segnalato all'analista da fastidiosi sentimenti e sensazioni controtransferali quali insofferenza, torpore, noia, rabbia, incomprensione, impotenza, un A.M.I. può essere inteso come la via regia per arrivare nel corso dell'analisi a dare pieno significato relazionale a quella stessa fantasia. D'altra parte è cosa ovvia che un paziente, in seduta, non ci mostra certo le sue fantasie più segrete bensì un comportamento, verbale e non verbale, che ne è l'espressione".