Attento all'infanzia, alle sue voci o ai suoi lamenti, Lyotard s' affaccia sulla scena di un gioco e scopre nel piccolo attore di questa rappresentazione il genio dell'arte. Il bambino tiene in mano un rocchetto che con gesto ripetitivo getta lontano da sé per poi farlo ricomparire. Fort-da, via-qui, sono le uniche due parole che questo bambino ormai celebre pronuncia: l'assenza e la presenza. L'assenza del sensibile nella sua presenza. Come nel gioco del rocchetto del nipotino di Freud o nello sguardo del pittore di Lascaux, anche lo stile dell'arte è «la visione dell'assenza di sensazione nella sua presenza», scuote l'anima assopita nell'apparenza con il tremore dell'apparizione. Ogni grande opera d'arte è la proposta di un' «assurdità»: un'anima minima, testimonianza, nel sensibile, «che al sensibile manca qualcosa o che qualcosa lo eccede». Da alcuni anni Lyotard indaga questo mistero, e lo fa soprattutto a partire dalle pagine della Critica del Giudizio di Kant. Già con l'enigma del bello Kant sfida l'intelletto, ma nel sublime la sfida si fa più grande e coinvolge la ragione: in questo sentimento in cui l'immaginazione teme di perdere se stessa e fa l'esperienza...