«Dietro ogni fatto c'era sempre una storia di persone che però quasi mai trovavo disposte alla confidenza. Alle domande rispondevano come fosse un interrogatorio con un sì o un no. Era una situazione di incomunicabilità che disorientava. Mi chiesi quale potesse essere la ragione, subito scacciando la prima che mi era venuta alla mente, (me ne vergogno ancora adesso), che fosse una sorta di afasia da incultura. Era un pregiudizio che, peraltro, non mi apparteneva. Il dialetto calabrese mi era familiare e dunque non poteva sfuggirmi che c'era tanta cultura quando alla gente di remote contrade si scioglieva la lingua nei canti. Magari avessi potuto volgere in domande e risposte la profondità delle cose dette su una melodia a voce spiegata o solo sussurrate come confessioni dell'anima».