Il titolo richiama una tecnica paesaggistica tipica dei giardini cinesi e giapponesi, che consiste nell'incorporare elementi esterni all'ambiente nella composizione di un giardino grazie ad un attento uso di presenze e assenze, ne è un esempio una siepe che si interrompe all'improvviso per mostrare una pagoda che si staglia in lontananza. Poschmann si rapporta alla poesia con la stessa cura. Ogni giardino può essere un paradiso, ogni parco cittadino può rivelare il suo potenziale utopico, così nelle composizioni di Poschmann estetica, etica, esperienza sociale e politica sono strettamente interconnesse e volutamente inestricabili. Ogni paesaggio ha un suo linguaggio e il poeta ne riconosce tanto le peculiarità quanto la portata universale, natura e poesia divengono quindi simbolo l'uno dell'altro ed espressione reciproca. Il visibile e l'invisibile, le immagini interiori e quelle esteriori creano un'armonia sorprendente nella lirica di Marion Poschmann. Il senso si dischiude nell'ibridazione, nella continua analisi del limine che per sua natura sfugge trascinando l'occhio che lo analizza tanto in profondità che solo la creazione poetica può sperare di offrire un resoconto adeguato. Oggetti, luoghi, situazioni e azioni sono osservati con attenzione e descritti in termini tanto concreti da risultare spiazzanti. Come illuminati da una luce fin troppo intensa i paesaggi descritti appaiono sfocati e lasciano quindi spazio, nello sforzo di metterne a fuoco i dettagli, a memorie passate, metafore e sogni. Ad ogni lettura i contorni si fanno al tempo stesso più definiti e meno materiali lasciando trasparire l'immensa profondità nascosta dietro ogni verso.