Scrivere incomincia nel corpo. Lo sente sulla sua pelle Paul Auster che, entrato nell'inverno della sua vita, si racconta, scrivendo di sé e partendo dai segni lasciati dalla vita sul suo corpo.
Le cicatrici sono mappe di quanto si è vissuto e guidano ai ricordi, ai giochi d'infanzia, ai momenti di trascurabile felicità, ai riti di passaggio, li riportano a galla, ne fanno dei simulacri.
Il corpo come storia in Diario d'inverno rinnova il genere autobiografico, lontano dal racconto lineare. Non conosce la semplicità narrativa della prima persona, ma si fa antologia e sinfonia, sé stesso come spettatore.
È musicale il lavoro di Paul Auster, maestro dello scrivere come forma minore di danza. È musica e dinamismo, perché il corpo comanda, sempre, e per fare quello che fai devi camminare, sentire il ritmo delle parole insieme a quello del cuore. Le pagine fondono così elenchi a intimità, ricordi d'amore alla perdita e al lutto, in un continuum che assomiglia tanto al nostro modo di riappropriarci della vita, attraverso la memoria che si accende improvvisa su immagini e episodi. Non c'è ordine temporale nel ricordo, ma significati che diventano parole, e sentimento, conquistando il posto che meritano negli scaffali della memoria, componendo il mosaico, dandogli forma, ma cambiandogliela negli anni, che cambiano ritmi e sentimenti.
Le porte che Paul Auster apre e chiude in questo diario raccontano una vita non insolita, una vita a suo modo comune, che non si nasconde né si imbelletta con i successi dell'autore ma rivela cadute e fallimenti, fragilità e riscoperte di sé. E fa partecipe il lettore delle ripartenze, faticose e rivelatrici: qualche volta basta un attimo, lo sguardo si ferma sulle prove di un balletto, i passi sul palcoscenico mossi con sapienza, senza bisogno della musica. Ascoltare il silenzio per scoprire di nuovo il ritmo dentro di sé. E farne racconto.
"Diario d'inverno" è un libro di grande umanità e di straordinaria onestà, un vero regalo di emozione.
Recensione di Francesca Cingoli