“Il rosso è il colore del sangue, del fuoco, del cuore. Per questo non riesco più a usarlo.
Afferro i tubetti del rosso e li lancio oltre il parapetto, nel canale.”
Venezia è una città di tanta luce e tante ombre, chiaroscuri che si rivestono di colori, al tramonto, negli scorci delle calli, nei silenzi lontani dalle chiacchiere dei turisti.
Quella che si ammira dall’altana di Giulia è una Venezia viva, dai muri scrostati e dalle storie che si rincorrono nel tempo. Ci sono luoghi che sono solo dei veneziani, dove solo loro sono capaci di sentire il respiro della vera città. Giulia è capace di sentirne anche i colori. Lei è pittrice e sulla tela sfoga le sue emozioni, e i suoi dolori più nascosti: è tra l’odore dei pigmenti e la tela che Giulia trova il suo equilibrio, e riesce a cacciare indietro le immagini di un giorno che ha cambiato tutto. Un giorno color rosso, di un rosso che adesso la sua arte rifiuta, perché è uno squarcio dell’anima.
L’arte ha su Giulia un effetto potente, riesce a entrarle dentro, e a portare ciò che vi era sepolto sulla tela.
“I colori hanno un linguaggio segreto, un modo per comunicare che va al di là della percezione visiva. Indicano una via, segnalano un pericolo. Possiamo dominarli o esserne dominati, cedere al loro fascino, al loro potere condizionante, o cavalcarli e guidarli sulle mappe dei nostri sentimenti”.
Un giorno lei e Diego si incontrano e non è un caso: Diego ha trovato per terra un’agendina, piena di note, di cose da fare, di appuntamenti, e quel nome Giulia Moro. Si è incuriosito, lui che è amante delle parole, le rincorre, le segna su quaderni, ci medita sopra, come editor abituato a lavorare sui testi altrui. E le parole di Giulia da quelle pagine lo conducono a cercarla, mosso dalla sensazione di una serendipità seducente.
“Una volta mi innamorai della parola “levità”. Mi sembrava che il suo suono richiamasse la leggerezza, il volo. Che fosse una parola impalpabile, difficile da imbrigliare anche sulla carta, una parola che voleva sempre scappare via, essere libera”.
Saranno incontri all’apparenza casuali i loro, sul sentiero dei ricordi e delle tappe che Giulia delinea nelle sue giornate. Un libro nella libreria più affascinante del pianeta, un’anguilla al mercato alla bancarella di Aldo, che è blu per Giulia, il colore dell’acqua della laguna veneziana, il blu cadetto. E poi il Magritte pieno di ombre del Guggenheim, il labirinto di Borges, il cuore di argilla del sotoportego dei Preti. Ogni cosa ha la sua storia, e il suo valore per Giulia, che ogni giorno svolge una tappa del suo pellegrinaggio intimo.
Lei e Diego si sfiorano, si incontrano, e poi si amano, con riluttanza, con timidezza e con paura, e con troppi segreti da rivelarsi.
Colori e parole si conoscono e si scoprono a vicenda, reciprocamente attratti, in Da qualche parte starò fermo ad aspettare te, che è un romanzo raffinato, di una prosa elegante che vibra di sfumature.
Giulia è tensione, furore creativo, disperazione privata, Diego è controllo esasperato, leggerezza, rifiuto delle responsabilità.
Ci sono tanti quadri, alcuni nascosti, chiusi per non vedere la luce, per rimanere silenziose immagini della memoria, frammenti e dettagli, e ci sono racconti artefatti per proteggersi, parole che assumono significato solo se pronunciate ad alta voce.
Con un verso di Walt Whitman come titolo, il romanzo di Lorenza Stroppa è un’ode a due voci che fa sognare un canale silenzioso al tramonto, un merletto tessuto da mani sapienti e nodose, un’amaca che dondola sulla marea di luci “che avanza e si ritrae, come una risacca”.
Recensione di Francesca Cingoli