Dopo le poesie di Teoria dei corpi, Gabriel Ferrater tace, non scrive più niente. Delle sue tre raccolte poetiche questa è l'ultima, la più vicina alla vita, perché gli era vicina la morte. La sua opera, tra le massime del Novecento catalano, dialoga con gli autori che da sempre ha amato, da Rimbaud a Graves, da T.S. Eliot a Brecht, da Kavafis a Frost, da Auden a Pavese, ma è in queste pagine che il suo mondo - sensoriale e linguistico - si manifesta con intensità abbagliante. Un mondo di immagini di disperata tenerezza: le notti perdute nell'alcol, le strade di Kensington, i bar di Barcellona, le caviglie di una bambina gitana, una spiaggia proibita, il desiderio dei corpi, un fiore giallo, la lama d'avorio di un tagliacarte. Ferrater registra queste immagini, le indaga, le combina, come fossero un'algebra dove tutto è esatto e tutto è mentito.