«Ghiosa nira megghiu di frauli!» Così cantava il venditore ambulante di gelsi per le strade assolate del messinese. Un grido e un invito che il cantastorie Geri Palamara nel secondo dopoguerra ha tradotto in una struggente canzone: ‘U Ghiosaru, per l’appunto. Al nord, specie nella Marca, le morelline erano per lo più quelle bianche, comunque dolci anch’esse come fragole. Scampoli di civiltà contadina radicati da un capo all’altro del Bel Paese, memorie che lo sguardo aggraziato e puntuale di Mario Vidor riporta in scena. E lo fa in quel bianco e nero che è stato la prima vera espressione artistica del primo autentico fermo immagine, dal dagherrotipo in poi, altro che tivù digitale! In quel bianco e nero con i controcolori perché così era la vita, dura e spinosa al pari dei rovi ma aveva già dentro il giallo e il verde dei campi, il blu del cielo, il grigio dei canali, il rosso dei papaveri… Ed è ancora Vidor a sottolineare questi ultimi alberi, umili e pur tanto importanti nell’economia rurale di allora, un po’ come succedeva e succede con l’ulivo in molte regioni italiane. Quali rami, quali nodosi tronchi se non quelli dei gelsi meglio si prestano a suggerire scorci iconografici del nostro agreste passato? Come non ammirare la loro parca nobiltà? Non a caso le tenere foglie nutrivano i cavalieri. Oggi, non dico le more, ma almeno un semplice scheletro con una parvenza di germogli, fatti salvi i luoghi battuti e cantati dall’autore, lo puoi trovare solo ad abbellire il cortile di qualche rara e patrizia dimora. Ecco però che in qualche modo l’onirica passerella ritorna, in virtù della comprovata passione che ha ridato luce e ombra a questi splendidi scatti. Solitari o in filari. Tra i casolari. Morèri. Norman Zoia