È uno sgomento pieno di parole quello che affolla la terra di mezzo tra la vita vissuta e il dopo che attende, oscuro, indecifrabile. È il Bardo della filosofia tibetana, un limbo dove i morti non sanno di esserlo, si credono malati, dentro casse da malati. Legati ancora alle azioni e ai sentimenti di quando erano vivi, ognuno alla sua storia, incapaci del distacco, in stallo.
Nel Bardo arriva un bambino, il figlio di Abramo Lincoln, morto di febbre tifoide mentre alla Casa Bianca si svolgeva un elegante ricevimento. Con la sua giacchetta, la camicia coi risvolti fuori, bianco come la porcellana, il piccolo si aggira tra gli sventurati, senza pace, in attesa che suo padre arrivi a prenderlo, per riportarlo a casa.
E Lincoln arriva davvero, stravolto dal dolore, sconvolto al punto da aprire la bara e abbracciare il corpo del figlio, imbalsamato come si usava allora. Il legame padre e figlio, che non si può spezzare, si fa pianto a due voci, e allunga il tempo dell’incertezza, della precarietà, in un dialogo impossibile. Il padre rassicura il figlio, lo vuole proteggere anche da morto; il bimbo si affanna attorno a lui, invisibile, alla ricerca di un contatto che non può esserci. Anime che non possono separarsi, e restano attaccate nel dolore. E noi in grado di guardare nel cuore di entrambi, del piccolo Willie e del suo papà, uomo e non presidente, e di assistere alla loro redenzione. Insieme a noi tutto il coro delle anime perse che ancora anelano a vivere, a completare quello che hanno lasciato, l’educazione dei figli, l’amore per una moglie, la sensualità che non hanno fatto in tempo a conoscere, perché tutto si è interrotto, e loro sono lì, bloccate, incapaci della consapevolezza del loro stato, incapaci di andare.
Tante voci, tutte insieme, frammentate e dolenti, in una ballata che non è romanzo, ma molto di più, diventa poesia. Pensieri e racconti, stralci di storia e invenzione: tutto insieme, tutto mischiato in un mosaico che priva la lettura di logica, e la consegna solo al sentimento, in una formula lirica dove trova spazio l’ironia, accanto alla commozione.
George Saunders ha realizzato un’opera sublime, coraggiosa, un esperimento inedito e riuscitissimo, che lascia stupiti. Appena premiato con il Man Booker Prize, il più importante premio letterario britannico.
Recensione di Francesca Cingoli